9.
NON AVERE PAURA
Sandra
Da quando ero incinta avevo sviluppato una specie di sesto senso, notavo i cambiamenti del tempo e soprattutto se stava per succedere qualcosa fuori dal normale, qualcosa in grado di alterarmi. Sembrava che il bambino diventasse più attivo o si paralizzasse completamente, e questo mi spaventava. Mi dava l’impressione di essere piena di sensori senza saperlo e che bastava che si avvicinasse qualche fastidio o preoccupazione perché si attivassero, cosa di cui il bambino, dal suo mondo, si rendeva subito conto. I sensori e il piccolo erano su un altro piano o un’altra frequenza, che anticipava di poche ore ciò che stava per succedere. E all’alba mi svegliai completamente scoperta e piena di angoscia. Non volevo alzarmi così presto perché non volevo sentirmi stanca durante il giorno e portare a termine tutti gli incarichi di Karin in quello stato fin quando non fosse arrivata l’ora di incontrare Julián. Così mi misi a leggere, ma non riuscivo a concentrarmi. Non avevo nessun motivo reale per sentirmi nervosa, almeno non più dei soliti, con i quali avevo imparato ad alzarmi e coricarmi. Eppure quella mattina si stava rivelando molto spiacevole, come quando da piccola mi svegliavano le liti senza senso dei miei genitori e la vita diventava subito amara, come se loro avessero il potere sul sole, il cielo e le piante.
Era anche vero che di notte avevo tossito e che probabilmente era stata proprio la tosse a mettermi in agitazione. Magari era peggiorata quando, qualche sera prima, ero uscita dal parrucchiere senza giacca. Forse era ora di cercare un nome per il mio bambino. Di base un nome serviva per chiamare qualcuno per strada e perché quella persona si girasse. I nomi in sé stessi non sono niente, dipende tutto da chi li porta. Ernesto, Javier, Pedro, Jesús, Francisco e mille altri. Ma non sapevo ancora che faccia, che voce avrebbe avuto, qualunque nome poteva andare bene.
Mi svegliai più o meno alle dieci. Ecco com’era andata a finire a furia di pensare ai nomi. Ma meno vedevo e meno sentivo Frida, tanto meglio. Mi alzai piano, mi misi dei pantaloni per scendere a fare colazione e quando aprii la porta profumava tutto di pino silvestre. Mancava un’ora perché quell’elfo dei boschi puliti se ne andasse. Fred e Karin non c’erano, dovevano aver fatto colazione già da un bel po’: probabilmente erano usciti a fare compere o una passeggiata in spiaggia. Avevo la casa solo per me, se si escludeva Frida, che in qualche modo mi avrebbe spiato anche se non me ne accorgevo. Infilai un soprabito per uscire a bere il caffellatte in giardino. Le piante mi risvegliavano pensieri positivi, ma quando distoglievo lo sguardo sentivo che mi circondava qualcosa di negativo. Visto che Karin e Fred non c’erano avrei potuto frugare in casa o magari scendere nello scantinato a guardare il sole nero, ora che sapevo cos’era. Secondo Julián simboleggiava ciò che si nasconde dietro il sole splendente, ciò che non vediamo, e i suoi raggi si piegavano in modo da formare la svastica e le rune. I nazisti credevano in queste cose, in cose che si inventavano loro e di cui si servivano per le loro fantasie. In fin dei conti si trattava di dominare e di fare ciò che gli pareva, e tutti quelli che avevo conosciuto fino a quel momento erano così.
Non volevo stare con Frida, per cui mi vestii e misi in moto la Vespa. Magari avrei incontrato per caso Julián in paese, oppure sarei andata a fare una passeggiata in spiaggia. Ma quando stavo per partire comparve Frida. Si era fatta due treccine ai lati della testa e indossava i guanti di gomma.
«Non puoi andartene», mi disse.
Mi fermai a guardare la sua faccia rotonda come una mela. Poi la fissai dritto negli occhi.
«Devi rimanere fin quando non saranno tornati. Vogliono parlarti di una questione importante.»
Notai un lampo maligno che attraversava quegli occhi azzurri come il cielo, che avrebbero potuto sostenere il mio sguardo anche due o tre ore.
«Grazie», risposi tornando dentro.
Mi lasciai cadere a peso morto sul divano e presi la borsa di velluto con i ferri e il golfino che sembrava condannato a non avere né maniche né collo. Mi misi a sferruzzare. Lavoravo e tossivo, tossivo e lavoravo. Mi tolsi la giacca: cosa volevano dirmi Fred e Karin? Il viso di Frida era stato diabolicamente impenetrabile. Con i guanti di gomma faceva ancora più paura: avrebbe potuto farmi a pezzi e poi toglierseli e gettarli nella spazzatura insieme ai miei resti.
Bevvi un po’ d’acqua perché la tosse mi irritava la gola e mi misi un’altra volta la giacca, avevo caldo e freddo. Non avevo voglia di lavorare a maglia, non avevo voglia di niente, lì non c’era niente che riuscisse a farmi sentire in una vera casa, dove ti viene voglia di sdraiarti sul divano e metterti a leggere una rivista. Ma non ero lì per quello, non stavo sopportando tutte quelle sofferenze per sdraiarmi e mettermi a leggere. Avevo una missione, un lavoro da compiere. Io e Frida stavamo lottando sullo stesso campo di battaglia, anche se non con le stesse armi: io non avevo armi.
Salii in camera mia per ammazzare il tempo. Il letto era sfatto: quando mi svegliavo un po’ più tardi Frida non puliva la mia stanza, era il suo modo di punirmi per la mia pigrizia. Non mi sopportava. L’avevo sorpresa a guardarmi con disprezzo quando mi vedeva abbandonata su una poltrona o sul divano o a sbadigliare in giro per casa. Non sopportava le persone come me, per lei eravamo certamente dei parassiti. Frida aveva tutto così chiaro in testa che faceva invidia e paura.
Vidi dalla finestra la Mercedes che entrava in garage. Che strano: non avevano preso il fuoristrada, ma la macchina che usavano quando volevano impressionare o sembrare più formali. Di solito la prendevano quando andavano a trovare Alice e Otto. Si conoscevano perfettamente gli uni con gli altri e conoscevano le proprietà di ognuno di loro, ma anche così non volevano cedere terreno in quanto a presenza e potere, per cui era molto probabile che fossero andati a casa di Alice o in un altro posto del genere. Magari avevano dovuto sbrigare qualche faccenda burocratica o avevano semplicemente fatto un salto in banca. Quando entrarono in casa sentii delle frasi, poi capii che erano in tedesco e alla fine captai la voce di Frida fra le loro. Quella faccenda mi dava una brutta sensazione e mi buttai sul letto disfatto a pensare.
Non capivo cosa potesse essere successo, ma tutto lasciava supporre che avesse a che fare con me. Era per l’albergo? Mi avevano vista entrare nell’albergo di Julián mentre Karin era dal parrucchiere? Potevo sempre dire che ero arrivata lì cercando parcheggio e che avevo avuto bisogno di andare in bagno. Si erano già più o meno abituati alle mie continue visite al bagno. Potevano avermi vista con Julián al Faro o in paese. Poteva essere un’infinità di cose ma... Dio! Potevano anche avere scoperto le siringhe: sì, era quello. Mi sarei difesa dicendo che non sapevo di cosa parlassero. Cos’era quella storia delle siringhe usate? Sicuramente qualcuno le aveva buttate nella spazzatura e dalla spazzatura in un cassonetto. Avrei detto: “Se pensate cose del genere di me perché mi avete chiesto di entrare nella Confraternita? Perché volete che entri nella Confraternita qualcuno che credete capace di rubare da un cestino due siringhe usate? Che me ne sarei fatta di due siringhe usate? O forse pensate che sia una tossica e che le abbia usate per iniettarmi dell’eroina?”.
Udii dei lievi passi che si avvicinavano alla mia porta. Non erano gli enormi e pesanti passi di Fred, lenti e solidi. E non erano quelli trascinati di Karin. Sembrava che toccassero appena il pavimento, erano come un vento rasoterra, come grandi foglie sugli alberi d’autunno che cadevano una dopo l’altra. Erano come i passi di una fata o di una strega.
Bussò, o meglio sfiorò solo la porta con le nocche e aprì prima che avessi il tempo di rispondere. Frida mi stava facendo una dichiarazione di guerra e questo mi irritò, mi spaventò e mi fece capire che mi avrebbe reso la vita molto più difficile. Mi sorprese mentre ero ancora sdraiata sul letto senza aver avuto quasi il tempo di reagire.
«Scendi», disse. «Vogliono vederti.»
«Perché non hai bussato?» chiesi per recuperare terreno.
«Sì, ho bussato ma non hai sentito. Probabilmente stavi dormendo.»
Notai nel suo tono il disprezzo che provava per me e capii che mi avrebbe fatto tutto il male di cui era capace. E forse i suoi sentimenti per Alberto avevano qualcosa a che fare con quello: se era così, ne ero molto contenta.
«Perché dici che stavo dormendo? Mi spii da qualche buco? » le chiesi mettendomi seduta e parlando con un tono di voce più alto possibile. Qualcosa mi diceva che dovevo ribellarmi a lei e far capire a Fred e Karin che non andavamo d’accordo.
«Non ti servirà a niente comportarti così», ribatté senza alzare la voce perché nessuno la sentisse a parte me.
Improvvisamente mi venne un attacco di tosse. Dopo quella volta dal parrucchiere non avevo smesso di tossire, ma in quel momento, per colpa del nervosismo, la gola iniziò a pizzicarmi, il petto mi faceva male e mi lacrimavano gli occhi, riuscivo a stento a finire una frase.
«Da quando sono arrivata... in questa casa... me l’hai...»
Stavo per dire: «Me l’hai giurata», ma a quel punto uscì sbattendo la porta. La tosse mi soffocava. Sentii l’acqua che scorreva nel bagno che si trovava nel corridoio di fronte alla mia camera. Frida doveva essere andata a prendermi un bicchiere d’acqua. Mi buttai supina sul letto per tossire meglio. Sentii altri passi che salivano per le scale. Avevo bisogno di un bicchiere d’acqua ma non lo avrei mai preso dalle mani di Frida.
«Possiamo entrare?» chiese Karin.
«È aperto», dissi, il che era verissimo, dato che quella era l’unica stanza della casa senza chiave.
Karin strappò il bicchiere d’acqua dalle mani di Frida e me lo portò alle labbra. Bevvi mezzo sorso che mi fece riprendere un po’. Mi asciugai le lacrime. Ero stanca e sudata.
«Tranquillizzati», esordì Fred. «Sicuramente c’è una spiegazione. »
«Deve esserci», intervenne Frida.
«Stai zitta, per favore», la rimproverò Karin sedendosi sul letto.
Mi alzai, non volevo che il mio letto si trasformasse in un’orgia di mostri. Anche se dormivamo sotto lo stesso tetto, avevo bisogno di avere uno spazio il più isolato possibile dai loro corpi e dai loro spiriti.
«Mi sento già meglio», dissi dirigendomi verso la porta.
Loro mi seguirono. I passi pesanti, quelli trascinati e quelli di gomma mi vennero dietro lungo le scale; a confronto dei loro i miei erano normali. Ascoltai i miei passi, una cosa che non avevo mai fatto prima, e mi resi conto che erano più simili dei loro a quelli della gente comune.
Andai in cucina, un terreno un po’ più neutrale della mia stanza, e mi versai un grande bicchiere di acqua fresca. Mi vennero dietro senza parlare. Solo Frida disse qualcosa in tedesco e nessuno le rispose. Avrei giurato che dicesse che stavo esagerando per fare loro pena e che era tutta scena; in un certo senso aveva ragione: volevo distrarli da quello che avevano scoperto sul mio conto, qualunque cosa fosse. Non volevo sentirmi come una condannata in attesa della sentenza.
Mi sedetti per bere e loro fecero lo stesso, tranne Frida.
«Di sicuro c’è una spiegazione», ripeté Fred.
Frida guardò l’orologio. Karin guardò Fred. Io bevvi ancora. «Manca una fiala dalla scatola che hai portato da casa di Alice», disse Fred.
Mancava una fiala dalla scatola? Non ero stata io. Ero tanto sorpresa che quasi mi misi a ridere.
Quei tre mi guardavano molto seriamente. Ci misi un minuto a reagire: restai con il bicchiere in mano, poi lo appoggiai sul tavolo senza fretta e, alzando lo sguardo, incrociai gli occhi da figlia di puttana di Frida. Non volevo rimanere fregata e soppesai bene quello che avrei detto, cioè niente.
«E cosa volete da me? Non capisco.»
«Magari l’hai presa senza volerlo o l’hai presa e l’hai messa da un’altra parte.»
«E perché avrei dovuto prendere una fiala di Karin? Non ha senso.»
«Dovremo cercarla tutti», disse Fred.
«E le altre?» chiesi. «Le hai già finite?»
«No, me ne resta una», rispose Karin. «Pensavo di non iniziare l’altra scatola prima di avere finito questa.»
«Io non le ho mai toccate. In camera vostra non ci entro neppure.»
«Sì che lo fai», intervenne Frida. «L’altro giorno sei entrata e ti è caduta questa.»
Mi mostrò una delle mollettine colorate con le quali mi fermavo la frangia prima di tagliarmi i capelli.
«Tu entri in camera mia, puoi averla presa lì», replicai.
«L’ho trovata io», disse Karin con un tono un po’ abbattuto, come se le dispiacesse avermi colta in fallo.
Dovevo pensare rapidamente. Tanto per iniziare, ero sicura che non mi fosse caduta nessuna molletta in quel bagno: doveva avercela messa Frida.
«Magari è stata trascinata dalla scopa. Frida pulisce anche la mia stanza.»
Karin si mise a pensare.
«E può anche darsi che mentre puliva la scatola le sia caduta per terra, che abbia fatto rompere una fiala e che ora voglia dare la colpa a me.»
Karin e Fred fecero cenno di no con la testa.
«Avrebbe dovuto tirare fuori la scatola dal cassetto del comodino perché le cadesse a terra, e in quel caso si sarebbe inzuppata del contenuto della fiala», disse Fred.
«Non so che dire, non ne so niente. Forse Karin se l’è iniettata e non se lo ricorda.»
Karin aggrottò le sopracciglia: la mia affermazione non le era piaciuta.
Probabilmente Frida si era resa conto che nel cestino mancavano le due siringhe, ma aveva pensato che avevo un alibi e aveva preferito tendermi quella trappola. Non mi veniva in mente un’altra spiegazione, se non che lei volesse togliermi di mezzo una volta per tutte.
A quel punto intervenne Fred.
«Cosa credi che ci sia in quelle iniezioni?»
«Vitamine, suppongo debba essere un complesso vitaminico molto forte che io, visto che sono incinta, non oserei iniettarmi.»
«Magari volevi la fiala per qualcos’altro», disse Frida.
Era decisa a farla finita con quella storia a tutti i costi, voleva accusarmi di essere una spia. Il fatto che avessi preso una delle fiale era una prova. Però Karin guardò Fred, e Fred disse che si era stufato, che avrebbero trovato il modo di chiarire la situazione e che Frida poteva andarsene. Karin non voleva ancora farla finita con me, voleva succhiarmi ancora un po’ di sangue e non permetteva che Frida le rovinasse tutto il divertimento.
Frida disse qualcosa in tedesco. Non avevo bisogno della traduzione per capire che stava dicendo che l’avrei pagata. Gli altri due annuirono.
«Se sei stata tu, è meglio che ce lo dica», proseguì Karin appena Frida chiuse la porta dietro di lei.
«Io non ho toccato quelle fiale, lo giuro.»
Dissi la verità, li guardai negli occhi e sostenni il loro sguardo.
«Non ho idea di cosa sia successo, ma non sono stata io.»
«Forse Alice», ipotizzò Karin, «ha ordinato a Frida di prenderla pensando che la colpa sarebbe ricaduta immediatamente su Sandra. Così ha una fiala in più e io resto senza Sandra. Sai bene che vuole tutto quello che non è suo.»
«Devo confessarvi una cosa», dissi. «Voglio essere sincera. Qualche giorno fa sono entrata nel vostro bagno. Volevo mettermi qualche goccia del profumo di Karin. Adoro quel profumo, però sono rimasta giusto il tempo di mettermelo e non mi è caduta nessuna molletta, lo giuro.»
«Questo cambia le cose», disse Fred. «Prima hai giurato che non eri mai entrata nella nostra camera da letto e ora dici il contrario. Non sei più affidabile.»
«Non l’ho giurato, ho solo detto che non ero entrata e per di più l’ho detto a Frida, non a voi. Non volevo che usasse quell’informazione contro di me.»
«Fai bene a dirci la verità», disse Karin guardando suo marito con aria di rimprovero. «È normale che vivendo qui tu sia entrata qualche volta in camera nostra e nel nostro bagno e sarebbe anche normale se avessi guardato i miei vestiti e te li fossi provati.»
«No, non li ho provati. Non mi permetterei mai, non sono miei.»
«Ti piacciono?»
«Sono davvero stupendi. Li ho visti solo una volta.»
«È normale», disse Karin rivolta a Fred.
«Ma che cosa contiene questo liquido per spingere Alice ad arrivare a mettere in pericolo la vostra amicizia?»
«La nostra amicizia non è in pericolo», rispose Fred. «Non siamo uniti dall’amicizia, ma dalla Confraternita. Ci sono fratelli che non si sopportano ma non possono comunque smettere di esserlo. Non c’è niente che possa separarci per sempre.»
«E ora che facciamo?» chiesi ingenuamente, sapendo che qualcuno mi stava mettendo alla prova: loro, Frida o Alice. Era come trovarsi a un esame senza sapere una sola risposta perché non si capiscono neanche le domande.
Dissi che mi sentivo male, che pensavo di avere l’influenza, che quella situazione così sgradevole mi aveva fatto peggiorare e che me ne sarei andata a Madrid. Non ne potevo più, mi sentivo sola, stavo per avere un figlio e mi trovavo in una famiglia che non era la mia. E per quanto loro dicessero di essere come dei nonni per me, non lo erano, perché i miei veri nonni avrebbero creduto a me e non a un’estranea. Per loro però Frida non era un’estranea, semmai lo ero io. Avevano più fiducia nella donna delle pulizie che in me, e lo capivo: io ero l’ultima arrivata, non ero la loro nipote, mi avevano trovata sulla spiaggia che vomitavo, sola, e mi avevano portata in quella casa che Frida conosceva da molto prima di me. Mentre parlavo mi si erano gonfiati gli occhi di lacrime e ora ero scoppiata. Avevo proprio voglia di farlo. Loro non erano i miei nonni, ero un’impiegata che veniva pagata come Frida e mi pagavano molto bene, certo, per questo restavo da loro, ma non si poteva comprare tutto con il denaro, mi avevano appena accusata di essere una ladra, io non avevo mai rubato nella mia vita ed eravamo arrivati a quel punto. Le lacrime miste alla tosse mi fecero rimanere senza parole. Le dita storte di Karin mi avvicinarono il bicchiere. Bevvi, bevvi e mi calmai un po’.
«Vado a giocare a golf, all’aria aperta mi concentro meglio», concluse Fred.
Ero ancora alle prese con l’attacco di tosse quando tornò indossando i pantaloni a quadri, le scarpe bianche e nere e il cappello che usava per giocare. Prese dall’armadio all’ingresso la borsa e le mazze e uscì. Quando sentii la Mercedes che si metteva in moto dissi: «Io vado a prendere le mie cose. È arrivato il momento di dirci addio».
Salii al piano di sopra con una grande sensazione di libertà. Non avevano cercato di trattenermi, me ne andavo, mi liberavo da quell’incubo. Avrei mangiato da qualche parte, mi sarei buttata sulla spiaggia fino a quando si fosse fatta ora di vedere Julián per salutarlo. Ora che avevamo scoperto che il famoso liquido era una truffa, il mio dovere con l’umanità era compiuto e non avrei dovuto fare altri gesti eroici per il resto della mia vita. Tornavo al mondo normale, dove la gente prende quello che un medico normale le prescrive.
Mi sembrò strano che Karin, che non sopportava che nessuno agisse secondo la propria volontà, mi lasciasse salire. Quando arrivai in camera, la finestra era aperta, si sentivano cantare gli uccellini e sembrava tutto come prima. Ero esausta per colpa delle mie condizioni di salute e per essere dovuta uscire da quel casino con il maggior grado di sincerità possibile, ma non potevo fare altro che resistere. L’unico amico che avevo lì non ce la faceva più e degli altri non mi potevo fidare. E così presi la valigia, la aprii e ci infilai i miei quattro stracci pensando che se Fred e Karin non assomigliavano affatto a quegli anziani della spiaggia che aiutavano ragazze come me, quante volte dovevo aver sbagliato e giudicato troppo bene o troppo male la gente? D’altra parte uno non può passare la vita a sospettare di tutti quelli che incontra per strada per poter essere sicuro. Ci sono persone che capiscono al volo cosa c’è dietro un volto o un sorriso. Io, dovevo ammetterlo, ero lenta, e per questo Fred e Karin mi avevano sorpresa, così anche Julián, in un certo senso.
Con quello che mi avevano pagato sarei riuscita a tirare avanti per un po’. Dopo aver fatto tutto, passai la mano sull’ultima mensola dell’armadio per vedere se stavo dimenticando qualcosa e in quel momento sentii le nocche di Karin che bussavano alla porta. «Avanti!» dissi prima che entrasse, ed era proprio ciò che avrebbe fatto da un momento all’altro.
«Non dovresti andartene così. Non stai bene, sei raffreddata. Forse hai la febbre. Resta qualche altro giorno finché non ti senti meglio, ti porteremo noi alla stazione degli autobus, all’aeroporto o dove vuoi. Intanto riposati.»
Vedevo la faccia da strega di Karin e mi faceva paura. Io ero più giovane e più forte, l’avrei avuta vinta se fossimo arrivate alle mani, e nonostante questo mi faceva paura. Lei conosceva il male assoluto. Anche se eravamo sole, non sarebbe stato tanto facile batterla.
«No, ho deciso di andarmene oggi», dissi mettendomi gli stivali e lo zaino in spalla. Volevo andarmene prima che tornasse Fred.
«Non così in fretta», disse Karin, prendendomi la borsa. Era una borsa vintage marrone, con le frange e i manici molto lunghi che si potevano portare incrociati sul petto. Era morbida e comoda, molto nel mio stile. Me l’aveva regalata Santi. Tutto quello che mi regalava Santi mi stava bene. Stavo pensando a quelle sciocchezze mentre Karin la apriva, come se avessi avuto bisogno di prendere le distanze da quello che stava succedendo. Non capivo perché Karin frugasse nella mia borsa, era un comportamento troppo aggressivo persino per lei. E quando reagii, quando stavo per dirle di mettere le sue luride mani deformi nelle sue cose e non nelle mie, tirò fuori qualcosa avvolto nella carta igienica e lo aprì. Era una delle fiale che usava lei.
«Non volevo credere a Frida, non volevo pensare che ci stavi tradendo, e invece... aveva ragione.»
«Ce l’ha messa Frida», mormorai con un filo di voce. «È innamorata cotta di Alberto e io le do fastidio.»
«Non dire stupidaggini. A quest’ora Frida starà facendo alla Confraternita un resoconto di quanto è successo, e io come posso difenderti dopo quello che ho visto?»
«Te lo giuro, Karin», la interruppi, «non ho preso quella fiala e non l’ho nascosta in borsa. Te lo giuro su quello che vuoi.»
Non potevo credere che stessi dicendo una cosa del genere.
«Non posso tradirli. Mi hai messo davanti a un bivio. O loro o tu.»
«Se non posso fare niente per dimostrare che non sono stata io, allora me ne vado.»
«Aspetta», disse Karin tagliandomi la strada con la borsa in mano, «in queste condizioni non arriveresti neanche a due isolati da qui.»
Karin indietreggiò, lanciò la borsa sul letto, uscì e chiuse la porta a chiave.
«È per il tuo bene, tesoro», urlò da dietro la porta.
Mi sedetti sul letto e guardai dalla finestra. Non c’era modo di scendere. Mi trovavo a un secondo piano abbastanza alto e non c’era un tubo al quale avrei potuto aggrapparmi. D’altro canto, nel mio stato non potevo correre rischi. Potevo cercare di aprire la porta con un calcio, anche se non ero sicura di avere tanta forza da riuscire a sfondarla. Karin mi aveva rinchiusa, mi aveva sequestrato.
Mi buttai sul letto. Magari avessi avuto poteri soprannaturali per comunicare mentalmente con Julián. Magari lui avesse intuito che c’era qualcosa che non andava e fosse venuto a cercarmi. Certo, e come sarebbe potuto venire a cercarmi un uomo di ottant’anni, così debole che anche un bambino gli avrebbe potuto rompere un osso? Magari Alberto avesse avuto il presentimento che mi ero messa in un casino e fosse venuto a cercarmi di corsa. Magari mi avesse voluto bene. Magari i miei genitori avessero fatto quello che in altre circostanze non avrei perdonato loro, presentarsi lì e chiedere di me, ricorrendo persino alla polizia se ce ne fosse stato bisogno. Magari mia sorella si fosse arrabbiata con l’inquilino, fosse venuta a parlare con lui e avesse scoperto che ero passata di là con una donna anziana, che lui pensava fosse mia nonna, magari le fosse venuta la curiosità di sapere dov’ero e si fosse messa a cercarmi. “Per favore, venite a cercarmi”, pensai con tutte le mie forze. Magari lo spirito di quel Salva di cui parlava Julián fosse stato in quella camera e mi avesse inviato dei segnali per poter uscire. Essendo uno spirito avrebbe potuto vedere tutto e trovare una via di fuga.
“Salva”, dissi, “tu che sei stato in un campo di concentramento, tu che sei stato molte volte sull’orlo della morte prima di morire, mandami la forza e la saggezza per uscire da questa situazione. Ti penso, Salva, penso a quanto sei stato forte e furbo per vincere il male. Entrami in testa, Salva, e dimmi quello che devo fare. Lascia che io pensi con il tuo cervello e che non debba imparare tutto quello che hai imparato per non lasciarmi dominare dalla paura.”
“Ho ottantasette anni”, pensai, “ho ottantasette anni e vi conosco, mi avete logorato e torturato, e io so come affrontarvi. Uno: siete dei maledetti vampiri e non siete capaci di vivere senza succhiare la vita agli altri. Due: di conseguenza, non bisogna mai fidarsi di voi in nessun caso perché sareste disposti a qualunque inganno e a qualunque cosa pur di succhiarmi il sangue. Tre: dovrò diventare come voi perché mi lasciate in pace. Quattro: siete creature notturne e la notte maschera le vere intenzioni, i veri desideri...”
Io ero ancora figlia del giorno e vedevo le cose alla luce del sole, ma immaginando che quella luce si spegnesse, come sarebbero apparse le stesse cose nelle tenebre? Chiusi gli occhi. Presi la bustina di sabbia che mi aveva regalato Julián e la strinsi forte. No, non era come chiudere gli occhi, perché con gli occhi chiusi non si vedeva niente. Nell’oscurità invece si continua a vedere ma in un altro modo, non si vede tutto come di giorno, ma alcune cose splendono di più o risaltano per qualche motivo. Chiusi le persiane e tirai le tende. Mi buttai sul letto per vedere cosa riuscivo a scorgere. Da sotto la porta entrava un filo di luce. E quel filo di luce, quel seme di luce si concentrava sul mio ventre. Il mio ventre.
Gli occhi di quelli che guardano nell’oscurità non avrebbero visto lo scintillio del mio sguardo, né l’orecchino che mi brillava sul naso; avrebbero visto il figlio che portavo in grembo. Era una pazzia pensare che Karin avesse rischiato che io scoprissi i suoi segreti solo per succhiarmi tempo ed energia, perché le permettessi di vivere come piaceva a lei. Karin non mi aveva rinchiusa lì perché io sospettavo di lei e di Fred e del loro famoso liquido trasparente: in quel caso avrebbero potuto sbarazzarsi di me. Se facevano tutto quello era perché volevano mio figlio. Cercai di non pensarci ma mi venne in mente quel film, Rosemary’s baby, e mi sentii veramente male. “Cinque: non lasciarti suggestionare dal male. La grande specialità del male è farti credere che ha più potere del bene.”
Mio figlio mi avrebbe protetta, finché era dentro di me non mi avrebbero fatto niente. Avrei dovuto imparare a muovermi nell’oscurità del male e a vedere quello che vedevano loro. Avrei dovuto essere più furba di quanto ero stata fino a quel momento e non lasciarmi accecare dalla luce.
Tutto quello di cui avevano bisogno era la vita.
Cercavano tutto ciò che avesse vita.
Passò un’eternità prima che sentissi il cancello. Fred era appena arrivato. Lui e Karin parlarono di me a bassa voce perché non li udissi. Andai fino alla porta e me ne allontanai quando risuonarono i loro passi sulla scala. Passi pesanti e passi che si trascinavano lungo il corridoio verso la mia stanza. La chiave girò ed entrarono. Io ero seduta sul letto. Girai la faccia verso la finestra e diedi loro le spalle.
«Karin mi ha detto quello che è successo e che non sai come spiegarlo. O forse lo sai?»
Non risposi, stavo pensando a come alzarmi con un balzo e correre giù lungo le scale.
«Cerca di ragionare. Karin ha chiuso a chiave perché non sapeva come reagire, lo ha fatto per proteggerti. Se dipendesse da noi ti lasceremmo andare, ma non dipende da noi, dipende dalla Confraternita. Se la Confraternita scoprisse che pensavi di portare fuori dalla nostra cerchia il farmaco la tua situazione si aggraverebbe molto, capisci? Dobbiamo pensare insieme a cosa fare.»
«Non ti chiederemo neanche perché volevi quella fiala», intervenne Karin. «Per venderla al mercato nero? Pensi che sia una droga?»
Continuavo a non rispondere e a dare loro le spalle. Dovevo mordermi la lingua per non dire quello che sapevo del liquido, ma quando si avvicinarono di più e sentii il loro alito che mi avvolgeva la testa, mi girai di colpo e mi alzai.
«Sapete benissimo che non ho preso io la fiala. Non l’ho presa, non l’ho presa. È una trappola.»
«Sarebbe pericoloso per la gente comune che questo medicinale circolasse senza controllo. Viene prodotto solo per noi», disse Karin. «Noi ci assumiamo i rischi delle possibili controindicazioni, non ci importa. Ma non può uscire da qui.»
«Il problema», continuò Fred, «è che Frida lo avrà detto ad Alice e Alice lo avrà detto a Sebastian, e a questo punto saranno tutti in fibrillazione.»
Non potevano più ingannarmi, vedevo nella loro oscurità. Vedevo le stesse cose che vedevano loro.
«Bisognerà pensare a cosa fare», riprese Karin sedendosi sul letto.
«Sì, bisognerà inventarsi qualcosa», aggiunse Fred grattandosi il mento.
«Ci sono!» esclamò Karin con un sorriso. «Diremo che è stato un mio errore, che l’avevo messa nella scatola dove ne restava solo una per averne due e che poi me ne sono dimenticata. »
Non dissi niente.
«Però», intervenne Fred, «ci crederanno a metà. Dovrai entrare nella Confraternita perché questo incidente resti in famiglia. Nel momento in cui farai parte della Confraternita ti atterrai a una gerarchia, ad alcune regole, e ci sentiremo tutti più sicuri, tu, noi e loro.»
L’oscurità mi diceva che se insistevano tanto per farmi entrare nella Confraternita era perché a partire da quel momento mi sarei trovata in un carcere senza sbarre. I catenacci sarebbero stati nella mia mente.
«Non c’è altra via d’uscita», disse uno dei due.
Loro erano nell’oscurità. Nella luce c’era Julián, che presto avrebbe iniziato a preoccuparsi per me.
«E cosa bisogna fare per entrare nella Confraternita?»
Sorrisero entrambi. Mi si avvicinarono ancora un po’ e mi misero le mani sulle spalle.
«Vedrai che bello», disse Karin. «La tua vita sta per subire un cambiamento spettacolare. Non dovrai preoccuparti di niente. Sarai la nostra protetta e tutto questo», concluse facendo un mezzo giro per la stanza, «sarà tuo quando noi non ci saremo più.»
«Stasera inviteremo Alice e Otto per dare loro la buona notizia. Possiamo chiamare anche Sebastian, magari trattandosi di te verrà, chissà.»
A cena si parlò della mia affiliazione alla Confraternita, anche se non riuscii a rendermi conto di niente perché ero molto stanca e mi si appannava la vista. Verso metà serata dissi che mi sentivo male e Sebastian mi scostò la sedia.